II

LE LIRICHE E L’ESERCIZIO STILISTICO

A parte le notiziole incerte del Pigna e del Fornari sull’attività teatrale del fanciullo Ariosto, incerte quanto all’età e all’entità di quegli inizi poetici che potevano ridursi a puerilità senza alcun valore (cosa potremmo dire della precoce attività del Leopardi se non ne avessimo i precisi documenti?), e che dunque possono al massimo indicarci un’attitudine fanciullesca ad un esercizio di fantasia, nella sua manifestazione piú fabulatrice e corposa, non abbiamo prove circa l’avvio poetico dell’Ariosto e possiamo solo astrattamente congetturare sulle «baje» studentesche di cui ci parla Virginio e sulla sua attività di attore-autore alla corte estense, finché non ci appoggiamo sul terreno solido delle liriche latine, le cui prime sicure testimonianze sono da riportarsi alla prima giovinezza dell’Ariosto. Non vogliamo con ciò accettare senz’altro la nota tesi carducciana di una gioventú tutta latina dell’Ariosto[1], perché l’accenno alle «baje» (che dovettero essere piccoli componimenti poco impegnativi e burleschi, di natura pratica e goliardica) è rafforzato dall’accenno ad una duplice esperienza volgare e latina giovanile che è ricavabile dai versi della quarta Satira, dove, riferendosi a un periodo giovanile di soggiorno reggiano, si allude alla prima condizione di serenità creatrice, di stato poetico, in cui sbocciarono le prime «iocunde rime» (poesie italiane) e «metri» (poesie latine[2]). Ma certo, senza entrare in una discussione inevitabilmente inconcludente perché priva di documenti, per le prove poetiche che possediamo e che possiamo quindi valutare ben al di là di pure ipotesi, possiamo pensare che, se non mancarono esercizi italiani (forse identificabili piuttosto con burle e satire studentesche e con allegre lodi femminili in tono del tutto immediato e scherzoso), negli anni della prima giovinezza l’Ariosto fu indubbiamente assorbito su di un piano letterario, tecnico dall’esercizio piú adeguato a quella stagione di fiorente poesia latina ferrarese e piú adeguato a quel canto di edonismo felice che tradizionalmente ormai richiedeva l’esempio di Orazio e degli elegiaci come Tibullo.

Le liriche latine ci si presentano con un valore generale di esercizio di costruzione piú che con un valore di indicazioni particolari, e complessivamente ci dimostrano una prima (prima anche se cronologicamente intrecciata nel suo svolgimento ulteriore con altre prove[3]) esperienza stilistica, un primo tentativo del metodo costruttivo ariostesco in un ambito di particolare tradizione e di particolare angustia rispetto alla poetica che trionferà nel Furioso. Rappresentano anzitutto il tributo del giovane letterato ad una moda non solo largamente italiana ma particolarmente ferrarese: l’Ariosto è radicato profondamente nella cultura ferrarese, anche se ciò non importa in lui nulla di provinciale ed anzi accresce quel senso fondamentale di concretezza che è tipicamente ariostesco e che aiuta a precisare la sua figura artistica fuori degli estetizzanti ritratti del grande distratto[4]. Omaggio dunque ad una tradizione affermata nel suo tempo e nella sua città, attrazione di un giovanile motivo edonistico che ben poteva vivere nei modi dei lirici latini[5] e nella loro trasposizione umanistica, e soprattutto bisogno in sede poetica di costruzione, di apprendimento a dar struttura a una immagine, a una intuizione, al rapido giro di un sentimento. Ecco i punti di movimento di queste liriche in cui l’Ariosto impegnò la sua giovanile vitalità poetica su di un piano chiaramente artistico, in una fase di noviziato stilistico, di formazione alla espressione.

E si noti come nella civiltà rinascimentale quell’esercizio avesse un’importanza ben maggiore di quanto, per un pregiudizio romantico, abbia avuto in altri momenti letterari a favore di convulse immediatezze passionali e autobiografiche. In quel mondo di composta ed intensa vitalità, l’esercizio stilistico era sentito come mezzo per salire ad un piano di dignità letteraria ed umana, irraggiungibile (pur fuori della gelata regolarità dello pseudoaristotelismo posteriore) mediante informi impeti di sensibilità, mediante originalità avventurose ed avulse dal solido tessuto di una tradizione tecnica che comprendeva in sé il carattere civilizzatore del primo Umanesimo, il suo tono di conquista di una umanità superiore, ma si era precisata sempre piú come differenziazione artistica, come studio «tutto umano», tanto piú quanto piú storicamente individuato ed artisticamente determinato.

Che le liriche latine abbiano soprattutto lo stimolo di una attenzione di prima poetica tutta grammaticale e formativa, ce lo provano immediatamente alcuni componimenti, variazioni di uno stesso tema, in stesure piú diluite e in riprese piú formate e precise. Cosí le due redazioni dell’ode Ad Philiroën, cosí l’utilizzazione dell’epitafio paterno (quale orrore per chi crede la poesia immediato documento di sola sincerità psicologica!) per un’altra epigrafe di donna, del resto immaginaria, di nome latino: variazione sullo stesso tema in un tono di lontananza archeologica, in elaborazione di sintassi poetica attenta ai legamenti, alle pause, alla struttura. Diceva nell’epitafio X:

donec, decurso spatio vitae, ossibus ossa

aeternum at animam miscuerint animae,

(vv. 5-6)

e nell’XI varia con gusto piú simmetrico e conclusivo:

donec, decurso spatio vitae, ossibus ossa

miscuerint charis atque animas animis.

(vv. 5-6)

Esercizio di stile che corrispondeva, anche a suo modo (e lo accresceva e colorava di nobiltà e di eleganza), a un motivo edonistico, di giovanile sensualità, lieta, senza complicazioni, simbolo di una esperienza fresca e non corrucciata della vita nella sua mobilità piacevole e che ben si conciliava a sua volta con il bisogno di una dorata maturità, di frutti saporosi, di una conclusione appagante e gustata, di uno stile nitido e non arido, di una cadenza precisa, ma non secca, ricca di un’eco molle, calda, un po’ come la cadenza tra rude e languida di certi dialetti padani.

E quindi la pratica della poesia latina voleva dire per il giovane Ariosto accogliere insieme l’offerta di una tradizione letteraria imperante a Ferrara e in tutta Italia, e trovare una espressione adatta a un motivo di esperienza e di aspirazione vitale, portandolo, ben al di là di immediatezze scherzose, ad una serietà elegante, a un tono formato, alla sua piú vera e decorosa realtà. Il che ci mette in guardia dal voler cercare nelle liriche latine delle precise avventure pratiche tradotte realisticamente in poesia; piuttosto un’esperienza piú generale, già vista in una dimensione fra pratica e poetica indiscriminabile, ma in cui predomina indubbiamente l’urgenza di chiarificazione formale, di capacità espressiva.

Ciò spiega anche come il petrarchismo posteriore (che tanto risentirà di questa prima scuola di costruzione e di una sensibilità un po’ pigra ed edonistica che rende particolarmente interessanti le rime dell’Ariosto) fosse accettato quale momento ulteriore non solo per ragioni di moda letteraria, ma anche per una coincidenza, in parte scolastica in parte tutta personale, fra un motivo di esperienza e un motivo di esercizio stilistico. E quindi anche l’osservazione desanctisiana circa la volubilità del giovine Ariosto che cantava in latino amori sensuali e in italiano amori platonici, viene a spostarsi in momenti, piú che cronologicamente, idealmente diversi per adesione a poetiche diverse e distanziate, nella seconda delle quali vennero ad intrudersi come residuo ancor vivo certe direzioni della prima e la generale chiarificazione stilistica, ottenuta attraverso la prima.

Se le liriche latine ci servono a individuare il primo atteggiamento letterario dell’Ariosto al di là delle «baje» studentesche, delle puerili favole teatrali (soggetti di pura supposizione), e ce lo chiariscono come lo sviluppo di un atteggiamento scolastico divenuto bisogno di formazione stilistica e di prima precisazione di un tono letterario e vitale, scendendo a vedere che cosa in concreto ci offrono circa la poetica in atto del giovane e i suoi primi risultati di poesia, ci pare ovvia la limitazione da farsi in ogni esame di queste liriche. A parte i dubbi carducciani limitati al De laudibus philosophiae circa presenza e correzioni del maestro Gregorio, questi componimenti sono per lo piú in uno stadio di adeguazione ed elaborazione di modelli, ed è con difficoltà che riusciamo a trovarci la rivelazione di un preciso anticipo di stile ariostesco che il critico cerca magari in quei preziosi errori tipici delle prime prove dei poeti: quelle rotture del modello, quelle deviazioni magari stonate che nel carduccianesimo del primissimo D’Annunzio indicano le tendenze e la natura del poeta decadente. Qui tale studio è reso piú difficile dalla vicinanza eccessiva della scuola e di una tradizione perfetta: eppure ad una attenzione replicata ci rivela non solo una tendenza formale che non aspira a marmorea lapidarietà, quanto ad una maturità sensibile e conclusa, limpida e calda al di là del frequentissimo gusto dello scherzo e del bisticcio prezioso, che è un primo indizio ancora assai pesante (e poco consapevole del proprio sviluppo) di quel giro stilistico, di ironia e bizzarria di apparenze perfino barocche (complicato dal petrarchismo, dalla suggestione del lambiccato lirismo del Tebaldeo e del Cariteo), che servirà nella poesia del Furioso a bordature frizzanti, a contorni a volte lucidi (l’ironia e la satira) a volte teneri e preziosi (la metafora e un primo bagliore di nuovo concettismo).

Al di là del periodare abbondante, ma poco sciolto e mosso piú a risultati oratori che poetici, raggiunti in alcuni componimenti di maggior mole (come nell’ode al Pio, nell’epitalamio per Lucrezia e Alfonso d’Este), l’esercizio delle liriche latine tende a conclusioni piú discorsive che intensamente liriche, in scene di abbandono appagato o di lamentosi rimproveri poco convinti, sensuali, ma non languidi (come in certi poeti latini rinascimentali tipo Navagero), tende ad una costruzione snodata, a passaggi facili ma ritmicamente sostenuti, in cui la mobilità ovidiana si appoggia su di una attenzione ritmica piú ferma e precisa. In questo senso piú di documento stilistico che non documento umano di precise situazioni (che indica già genericamente una tendenza non psicologica, contro l’opinione del Croce che vede nei Carmina soprattutto «palpiti», una tendenza ad esperienze letterarie sia pure su temi e in stati d’animo giovanili e abbondanti che possono scambiarsi per palpiti e fremiti stimolati realisticamente da situazioni pratiche determinate), i risultati poetici sono tenui specialmente se non si va alla ricerca del quadretto, del ritrattino gustoso, del valore illustrativo (la «leggiadra persona femminile», le «delizie campestri», le imprecazioni «contro la femmina traditrice e venale»[6]), ma se, entro questi risultati inferiori raggiunti con notevole lucidità (tanto che molte di queste poesie lasciano un breve ma sicuro risultato mnemonico), si cercano veri valori lirici a cui pure il giovane Ariosto certamente pensava, anche se su di un piano piú di adeguazione ritmica che di piena fusione poetica.

L’impegno a raggiungere il tono «delli latini miei» (impostazione umanistica e confermata fiducia nel valore superiore di lingua poetica del latino) supera spesso e travisa ogni altra intenzione (cosí ad esempio nella XIX, De vellere aureo, in cui lo stesso ritmo esterno è compassato per eccessiva mimesi, cosí lo scherzo catulliano sulla cagnola della fanciulla, XX), e certo la vicinanza dei modelli (a parte i veri e propri rifacimenti) rende evidente spesso una ricerca di perfezione esteriore stilizzata, piú che di profondi accordi interiori che caratterizza nel Furioso anche le riprese e i modelli poetici. Donde il bisogno di una chiara impressione di classicità resa magari con l’uso scherzoso di versi e detti latini («nil alienum a me mulier muliebre putavi» – XLVI, 3), la concisione perfino sforzata degli epigrammi che l’Ariosto migliore non amava (ma che pure spesso sottende l’agevolezza dell’ottava come un voltairiano e secco ritmo di battute prosastiche). Ma questo bisogno di perfezione classica non portava a toni raggelati e marmorei come in certi classicisti duri e crucciati per troppa dignità, e lo stilizzamento di scherzi come il XXX e XXXI, delle poesiole come la XXXIII e XXXIV[7], è a suo modo disteso, piano, dolcemente gustoso, colorito da un rapido moto di sensualità, di senso di gioia vitale: ne nasce un tono medio tra gustosità di stilizzamento e gustosità di calore vitale, di impeto gioioso che in altri momenti piú alti il metodo ariostesco riprenderà e trasformerà nell’esistenza di un ritmo vitale trasposto in musica, in cui il calore umano si scioglie tutto in superiore realtà stilistica; ma questa vive di una concretezza che non è piú la gustosità saporita di un puro esercizio di costruzione.

Il giovane Ariosto cosí sviluppava, coerentemente al suo bisogno di costruirsi come forma, quel tono offertogli dai lirici latini, accentuato in senso gustoso e piano, adeguandolo ad una esperienza gioiosa, non drammatica. Tanto che anche nella XV, per la morte del poeta Marullo, lungi da una semplice effusione sentimentale (come penserebbe il Croce in questo ambito di opere minori in cui altrimenti cerca il quadretto, il risultato illustrativo) troviamo la volontà di un tono dignitoso, classico eppure mosso, rapido, gioioso quasi, malgrado l’argomento che solo esternamente sembra eccitare un’ansia che è piuttosto dolcezza e snodata rapidità nel distico che ritorna incalzante.

Sci verum, quaeso? scin tu, Strozza? eia age, fare;

maior quam populi, Strozza, fides tua sit.

(vv. 21-22)

O la VII Ad Petrum Bembum sull’infedeltà dell’amata, in cui come nella elegia De diversis amoribus conta non un «palpito» realistico di sdegno, ma un pretesto ad un ritmo facile, esplosivo e gioioso che non deriva da una particolare situazione psicologica realistica (come cercherebbe un desanctisiano in ritardo: la donna infedele, lo sdegno con l’amico che consiglia a sopportare), ma da una generale disposizione a costruirsi artisticamente in un tono letterario, appoggiato da una ispirazione giovanile entusiasticamente epicurea che il poeta rivede in sede poetica come base alla sua costruzione guidata dal modello dei classici.

Sentite dunque dal giovane Ariosto come esercizio di costruzione e come espressione di un movimento di accettazione gioiosa e indiscriminata della vita, le liriche latine, scritte nella maggior parte nel periodo piú giovanile (prima dell’ingresso al servizio del cardinale), ben rappresentano la prima esperienza poetica di questo costruttore attento e cosciente entro un mal discriminabile avviamento scolastico: prima esperienza perché in queste liriche l’Ariosto provò i primi accordi di parole, le prime costruzioni di grammatica e sintassi poetica, e perché vi si pone, nella forma piú sterile e approssimativa, un tema essenziale del metodo ariostesco. Il tema di uno stilizzamento che altrove diverrà coerenza musicale e di una traduzione di ritmo vitale che è qui ancora incerta, poco impegnativa e poco ricca (ma che pure anche in componimenti un po’ a mosaico tende a prevalere al di sopra del ritratto e della scenetta in sé e per sé): piú tardi e soprattutto nel Furioso il poeta troverà ben piú in alto che su di un piano di esercizio un’espressione unitaria che rispecchia esigenze accennate da questi primi tentativi lirici, che fanno cosí già parte della storia poetica dell’Ariosto.

Esclusa dopo le indagini del Catalano[8] l’autenticità del lamento in morte di Eleonora d’Este del 1493, l’attività di rime italiane documentabile si può far risalire ad un periodo di notevole maturità, sulla trentina, pur non escludendo ed anzi supponendo un esercizio precedente che a noi non ha lasciato testi, forse per la sua provvisorietà e il suo carattere occasionale e burlesco (le «baje»). La tradizione petrarchesca non era assente a Ferrara (si pensi al Boiardo, al Bendedei[9]), anche se superata dalla moda latina e dalla poesia cortigiana alla Cariteo e Tebaldeo in cui il petrarchismo si sviluppa, prima della precisazione bembesca, in tono di divertimento e di facile riuscita canora, in pretesto di bravura improvvisatrice.

Tradizione che doveva tener conto di questa influenza piú chiaramente concettistica e che venne a prendere un piú grande impulso dal movimento bembesco e proprio dalla dimora del Bembo in Ferrara nel 1498-1499 e nel 1502-1503. A parte le relazioni personali con l’Ariosto, il Bembo veniva ad influire su tutto il circolo letterario ferrarese e vi portava il risultato estremo della cultura letteraria rinascimentale, il petrarchismo regolarizzato e rinforzato (diremmo quasi classicizzato e insieme reso contemporaneo, espressione di direttive nate dalla società letteraria ed esemplare dell’epoca) dalla teoria linguistica (Prose della volgar lingua) e dalle indagini sull’amor platonico (Asolani) e che, con la sua precisazione e il suo riferimento a un motivo di costume esemplare, costituiva uno strumento di poetica ben superiore alla base data da una sporadica ripresa di temi petrarcheschi durante il Quattrocento. Anche se la teorizzazione bembesca è complessivamente posteriore, quelle intuizioni, applicate già nelle sue prime rime, possono ritenersi già vive ed attive nel periodo (specie il secondo) di vita ferrarese ed è facile immaginare l’enorme influenza di un atteggiamento letterario cosí coerente, sostanziato integralmente da unicità di lingua poetica e di motivi lirici rappresentativi, precisato in un modello e sensibile alle esigenze piú squisite di una società vigorosa e creativa.

Venivano a cadere le obiezioni degli umanisti, e la tradizione lirica italiana riprendeva una dignità di perfezione esemplare che la poneva accanto a quella latina con cui veniva a condividere la regolarità, l’aulicità, il carattere di formazione non casuale e non popolaresca, arricchendosi vantaggiosamente di una possibilità di variazioni, di adeguazioni vitali, portate sul piano del tecnicismo piú assoluto, ma riscaldate da una fiamma piú continua, da una musica piú controllata su riprove viventi, su di un giuoco formale piú intenso e spazioso; sempre sottilissimo, ma meno musivo ed aleatorio. Tanto piú che nella sua vitalità piú ardita il petrarchismo di quei primi anni del secolo non escludeva un riflesso di quel colorismo boiardesco o di quel tono piú madrigalesco che, pur nel loro lambiccato ed esteriore intellettualismo, mantenevano i poeti cortigiani, poiché, costituita una nuova classicità italiana al riparo dall’invadenza di quella latina e non in contrasto, il petrarchismo bembesco finiva per consacrare, attraverso la regolarità dell’imitazione petrarchesca e una larga concezione spiritualistica dell’amore, anche gran parte della tradizione letteraria italiana passata, nelle sue comuni origini provenzali, nella presenza del Petrarca: la differenziazione e l’epurazione piú rigida non ebbero luogo d’altronde che di fronte alle forme piú rudemente popolari, e il petrarchismo fu soprattutto inizialmente vivo nella costituzione di un modello o di una larga base di sicurezza letteraria.

Sicché l’Ariosto, consumata quasi interamente la sua esperienza latina e i primi tentativi a noi ignoti di «iocunde rime», ricevé dal bembismo una sollecitazione viva a portare la sua volontà di poesia italiana su di un piano di poetica, di dignità tecnica senza tuttavia adeguarsi completamente e scrupolosamente ai piú minuti precetti che la poetica petrarchista venne sviluppando in seguito e che già nell’opera del Bembo trovavano pratica attuazione. Non è dunque un’esperienza giovanile come quella latina, anche se raccoglie il frutto di tentativi precedenti, e viene a interferire cronologicamente almeno con la prima e seconda redazione del poema, portando ad autonoma maturità motivi che viceversa nella loro maggioranza rappresentano un momento funzionale e idealmente precedente al Furioso, dato che in questo il petrarchismo trova un impiego ulteriore integrato dal rapido canto delle ottave in un senso musicale piú intero, di origine piú profonda e complessa[10].

A parte questa utilizzazione entro il Furioso, le Rime hanno nello sviluppo ideale della poesia ariostesca un loro valore anzitutto iniziale notevolissimo: dopo l’esperienza latina di generica conoscenza umana, gioiosa e giovanile, trasposta in misure decorose e costituite come prima conquista di forma, le Rime implicano un accrescimento nella esperienza poetica ariostesca in quanto nuovi toni vengono ricercati coerentemente a un approfondimento intimo, nel senso di piú attento sviluppo di una esperienza sentimentale piú individuata e affinata, di maggiore precisazione dall’interno di un movimento vitale visto a volte con maggiore schematismo intellettuale. Rischio questo che, insieme all’esempio di stilizzamento eccessivo delle liriche latine, ha però un suo valore formativo se si pensa all’insegnamento di precisione e di lucida impalcatura che nel Furioso è superato in musica, ma è presente come linea arguta e sottile che sorregge tanto fluido colore, tanta sovrabbondanza narrativa.

Bisogna poi notare che se l’esperienza del Petrarca e di alcuni petrarchisti (certo il Bembo e a suo modo il Boiardo) è essenziale per le Rime e per il motivo orlandesco che ne deriva, le prove di estremo petrarchismo nell’Ariosto non sono molte e vanno come esempi ultimi da un esercizio volutamente imitatorio (il centone petrarchesco del Capitolo XXVII concepito evidentemente come divertimento culturale e prova semmai, se ce ne fosse bisogno, di una conoscenza molto precisa del Petrarca) ad alcune canzoni, come la II, fredda e insipida, come le due del 1516[11] (IV e V) intonate solennemente, in oratoria petrarchistica. E in queste piú che «qualche bel tratto di elevata commozione», come dice il Croce[12], si può trovare una maturità costruttiva in una direzione di alta retorica che nel Furioso diviene spesso incantata esaltazione e spesso decade a gustoso vaniloquio tutto decorativo. Ricche di precise reminiscenze petrarchesche, mosse da un’intenzione platonica che raggiunge la massima serietà (la seconda strofa della prima), le due canzoni di Filiberta e Giuliano raggiungono indubbiamente il culmine dell’adesione ariostesca al petrarchismo, e segnano insieme l’acme di un tono che nelle Rime e nel Furioso ha bisogno di fondersi con altri toni, di vivere in una aria piú calda, meno severa (come intonazione psicologica, non come dignità umana ed artistica), nel calore di una esperienza non moralistica e retorica, non nudamente spiritualistica.

Al punto opposto di questo tono alto e solenne, piú vicino al modello della canzone petrarchista cinquecentesca, è accertabile entro l’esperienza delle Rime un tono largamente realistico sensuale che si realizza soprattutto in molti Capitoli[13]. Cosí alla lettura di un esempio limite, il famoso Capitolo VIII, in cui il poeta descrive una perfetta notte d’amore («O piú che ’l giorno a me lucida e chiara»), non devono tanto colpire certe immagini di estrema evidenza realistica per il loro riferimento sensuale, ma piuttosto il loro tono giocondo, fuso, senza intoppi, senza schematismo intellettuale, e pure non frutto di assurda fotografia o di volontà pratica, di passione che cerca immediati compensi fantastici. Deve colpire il ritmo che già notammo in alcune liriche latine piú riuscite, una agevole vitalità che travolge un petrarchismo e una misura classica non assenti, che pare pronta a traboccare anche nelle piú gelide strutture in piana scorrevolezza, in una specie di riso rapido e maturo, gustato e musicale:

mirar le ciglia e l’aurei crespi crini,

mirar le rose in su le labra sparse,

porvi la bocca e non temer de’ spini [...].

(vv. 46-48)

Ma anche questo tono che rappresenta la punta estrema della sensibilità ariostesca verso un moto di letizia gustata, di edonismo soddisfatto ed acceso, non vive che raramente isolato, alla stessa stregua del tono piú petrarchistico, solenne, e la poetica dell’Ariosto delle Rime (certo poetica non unitaria, ma tesa ad esperienze in vista di un piano comune lirico) si propone, sotto influenze momentanee e spesso con esigenze particolari, non una schematicità grandiosa e raggelata, una nobiltà classicistica in cui svolgere puri discorsi di decoro spirituale e di contemplazione ideale, né strutture di lunghi svolgimenti psicologici entro una generica trama petrarchistica, ma piuttosto un tono sorretto ed ampio, dignitosamente discorsivo, in cui petrarchismo e sensibilità piú realistica tendono a fondersi, senza sempre riuscirvi, scendendo a volte a un tono madrigalesco concettistico, o raggiungendo piú raramente un piano di risultati piú concreti e pienamente estetici in cui queste esperienze liriche trovano una superiore unità.

Sono dunque esperienze diverse animate anche da presenze letterarie diverse, ma che nel loro fondo essenziale mirano ad una poesia che porti in lingua letteraria un sentimento di esperienza vitale che va da una concretezza realistica ad una raffinata sentimentalità, ma che non esce mai dal cerchio di una sensibilità sottilmente edonistica, capace di tendersi fino ad una idealizzazione, ma florida, antiascetica.

E in generale si può notare che una fusione gustosa si ottiene piú facilmente nei Capitoli amorosi che costituiscono come una scoperta ariostesca e adoperano modi petrarchistici mai parodisticamente, ma a meglio superare una rappresentazione puramente realistica, ad alleggerirla e soffonderla di nobile vaghezza senza far prevalere lo schema intellettualistico che da quei modi potrebbe derivare.

Cosí nel Capitolo XI in cui si esalta Firenze con una freschezza qua e là quasi impressionistica, lo schema intellettualistico è superato (la bellezza di Firenze non vale a rasserenare il suo cuore perché lontano dalla donna amata), perché le immagini di quel paesaggio sereno continuano nelle immagini amorose con la stessa intonazione, e il finale largo e sognante nasce da un presupposto realistico e si sviluppa in una limpida immagine che pare il simbolo di una poesia raffinata e incantata, ma insieme concreta, lucida:

Oltr’a que’ monti, a ripa l’onda vaga

del re de’ fiumi, in bianca e pura stola,

cantando ferma il sol la bella maga

che con sua vista può sanarmi sola.

(vv. 73-76)

Cosí nel Capitolo IX una scenetta realistica raggiunge un ritmo cosí felice e largo che supera il suo puro significato impressionistico in un senso di agevolezza fantastica e di facilità costruttiva che l’Ariosto aveva cercato con altri mezzi e con minore padronanza nelle liriche latine. Facilità costruttiva e senso di concretezza risolta in poesia, anche se non alta, che ritroviamo nel Capitolo VII in cui lungi da generiche effusioni sentimentali risplende una chiara intuizione poetica che vuole adeguare una condizione interna, ridente e piena, anche se nel testo l’ultima parte fluisce piú ragionativa e incapace di permeare ogni parola di quel senso gioioso, esplosivo:

convien che l’allegrezza si diffonda,

e faccia rider li occhi, e ne l’aspetto

ir con baldanza [...].

(vv. 15-17)

Ed è da questa fusione petrarchistico-realistica in un tono gustoso e sensibile, discorsivo ed eletto (in cui ricorre una certa somiglianza con le Satire) che nasce il capolavoro dei Capitoli, il V, scritto nella piena maturità[14], nella vicinanza delle Satire, al culmine ormai di questa esperienza lirica che portava l’Ariosto ad una utilizzazione sempre piú unitaria dei suoi mezzi, dopo tentativi diversi ma tesi da un sostanziale stimolo comune. Qui la collusione fra petrarchismo e discorso energico realistico («Pentomi, e col pentir mi meraviglio / com’io potessi uscir sí di me stesso», vv. 16-17), fra modi eletti convenzionali e forza di rappresentazione piú immediata

(Altre piogge al coperto, altre tempeste

di sospiri e di lacrime mi aspetto,

che mi sien piú continue e piú moleste),

(vv. 55-57)

fra concettismo e immagine viva, intima al senso piú profondo del «cuore» ariostesco

(Duro serammi piú che il sasso il letto,

e ’l cor tornar per tutta questa via

mille volte ogni dí sarà costretto),

(vv. 58-60)

è feconda di risultato poetico, in un moto di canto tutto risolto, leggero e sostanzioso, brillante e sereno che fa ripensare a certe immagini di sensibilità tutta sorriso dell’Orlando:

ché, se a Madonna io m’appressassi quanto

me ne dilungo, e fusse speme al fine

del mio camin poi rispirarle a canto;

e le man bianche piú che fresche brine

baciarle, e insieme questi avidi lumi

pascer de le bellezze alme e divine,

poco il mal tempo, e loti e sassi e fiumi

mi darian noia [...].

(vv. 37-44)

Un’eleganza sollevata e nobilmente sensuale che nessun lirico cinquecentesco ha mai attinto e che nei Capitoli riscatta e utilizza uno sviluppo concettistico difficilmente isolato per puro gusto intellettuale, quasi sempre nutrito di una grazia vigorosa, non solo fredduristico e cervellotico come quello dei vari Tebaldeo, capace di echi musicali, adoperato spesso come esercizio di musica lenta e sostenuta da uno schema poco pedantesco, pronto a sfumare in tenerezza e sorriso madrigalesco.

È raro che interi componimenti si reggano su di un puro svolgimento concettistico ed anche là dove, come nel Capitolo XVI, il concettismo è piú scoperto (la visione di un campo di battaglia non può fargli dimenticare la sua ferita amorosa), anche lí non manca un senso di immagine piú legata ad esperienza che a perfetta corrispondenza intellettualistica. Per lo piú il concettismo si scioglie in una effusività discorsiva e piacevole, forza sorridente come nel XXIV, scherzo poco impegnativo come nel XX, facilità da strambotto popolareggiante come nel XXI:

Tu vivi lieto ed in me abbonda il pianto;

tu altri godi ed io te sol aspetto;

di bianco vesti, ed io di negro ho il manto.

(vv. 16-18)

Intonazione questa di scherzo e di facile melodia, che si propone piú apertamente come meta di poetica nei pochi Madrigali che, anche nella loro maggiore libertà metrica, sembrano realizzare organismi piú labili, piú cantabili, e in realtà piú frivoli e poco consistenti[15], capaci di fugaci impressioni, di immagini pallide e sfumanti. Esercizio anche questo utile sulla via di certi toni orlandeschi esangui e fragili, ma in sé e per sé incapace di rilievo e inverato piuttosto nell’esercizio piú solido dei Sonetti: disposto al massimo a traduzioni di brevi atti di sensibilità musicale poco complessa come che nel suo svolgimento, ricco di preziosi enjambements e di risonanze, assicura quella dolcissima frase di canto alla luna che compensa, come spesso avviene nell’Ariosto delle Rime, di musiche piú esteriori e approssimative:

qual è a veder, qualor vermiglia rosa

scuopra il bel paradiso

de le sue foglie, allor che ’l sol diviso

da l’orïente sorge il giorno alzando.

E bianca è sí come n’appare, quando

nel bel seren piú limpido la luna

sovra l’onda tranquilla

coi bei tremanti suoi raggi scintilla.

(vv. 9-16)

Nei Sonetti, che hanno tradizionalmente una loro particolare schematicità e un loro svolgimento a conclusione pregnante e rilevata (donde la loro grande utilizzazione petrarchistica e barocca fino al gusto ritrattistico del Carducci), il concettismo di rado predomina in maniera assoluta (semmai nel XXXI e nell’VIII che fa pensare all’influenza del Tebaldeo) e tende piuttosto a sottomettersi a un fine madrigalesco, a un uso di scherzo sorridente e cantato piú che ad una conclusione di bizzarria o di perfezione schematica: e le parole, i modi petrarcheschi tornano fuori dell’intonazione piú alta del modello, senza rilievo di tragedia intima, condotti piuttosto a mezzi letterari di una sensibilità soave e briosa, sollevata e calda, sottilmente sensuale.

O sicuro, secreto e fidel porto,

dove, fuor di gran pelago, due stelle,

le piú chiare del cielo e le piú belle,

dopo una lunga e cieca via m’han scorto [...].

O caro albergo, o cameretta cara,

ch’in queste dolci tenebre mi servi

a goder d’ogni sol notte piú chiara [...].

(Sonetto III, vv. 1-4, 9-11)

Non son dunque quelli piú spirituali e severi (e si noti che di sonetti di pentimento, invocazione a Dio ecc., cosí frequenti nei canzonieri petrarchisti, ce n’è uno solo) che corrispondono all’intima spinta ariostesca, che perfino nelle Canzoni (ad esempio nella I cosí ricca di spunti visivi e concreti, di eleganza sensuale pur nel giro petrarchesco) porta un senso di finezza sensibile e sanamente morbida, un soffio di calore sensuale che nelle forme dell’esercizio petrarchistico dan luogo, piú che a costruzioni completamente liriche, ad inizi di canto che superano la loro funzione di concetto o di madrigale riportando di questi il succo piú gustato e segreto e superando anche il tono piú realistico che in qualche sonetto (ad esempio il XIII) sembra riprendere in scorcio l’abbondanza ridente di alcuni Capitoli.

Cosí la lettura del Sonetto XI ci mostra come in un tessuto largamente petrarchesco la poesia coagula, quando una passionalità leggera ma non frivola e non drammatica, un senso vitale, pieno e sereno prevalgono sullo schema e si realizzano in canto agevole ed attento, in luce di sorriso, in levità sensibile, in ritmo preciso e alleggerito:

Ben che ’l martír sia periglioso e grave,

che ’l mio misero cuor per voi sostiene,

non m’incresce però, perché non viene

cosa da voi che non mi sia soave [...].

(vv. 1-4)

L’esperienza di eleganza petrarchesca, che va al di là della sua pura costruzione latina adeguante in ritmo esterno un moto di gioia vitale, viene cosí a servire l’essenziale bisogno di un impasto poetico aereo e concreto in cui le immagini si liberano senza incoerenza dal peso concettuale e dalla piú immediata base realistica (che pure è un modo di certezza vitale nell’Ariosto: i Capitoli), in cui si sollevano motivi di canto di altissima qualità che non riescono però a svolgersi completamente come avviene nell’Orlando, dove la base musicale è piú vasta e il calore fantastico piú continuo, piú assoluto, anche se nutrito da queste diverse esperienze umane e letterarie corrispondenti idealmente ai vari atteggiamenti tecnici delle opere minori. Si consideri come ultima riprova la prima quartina del Sonetto XVII, cosí ariosa, e pacata, improvvisamente allargata, senza crudezza di trovata intellettualistica, dal terzo verso (uno dei versi ariosteschi che piú resistono nella memoria) che, slegato dalla servitú di una giusta proporzione logica con l’altro termine di paragone e pure non arbitrario e retorico, induce alla massima leggerezza aerea il canto sereno con cui si apre il sonetto:

Occhi miei belli, mentre ch’i’ vi miro,

per dolcezza inefabil ch’io ne sento,

vola, come falcon c’ha seco il vento,

la memoria da me d’ogni martíro;

e tosto che da voi le luci giro,

amaricato resto in tal tormento

che, s’ebbi mai piacer, non lo ramento:

ne va il ricordo col primier sospiro.

Non sarei di vedervi già sí vago

s’io sentissi giovar, come la vista,

l’aver di voi nel cor sempre l’imago.

Invidia è ben se ’l guardar mio vi attrista;

e tanto piú che quello ond’io m’appago

nulla a voi perde, ed a me tanto acquista.

Quel verso bellissimo che pare esprimere un senso di liberazione lietamente sensuale, di gioioso impeto naturale che non manca mai nel migliore platonismo ariostesco, segna l’altezza di un tono che si propaga piú stanco nel resto del sonetto, specie nelle terzine: riprova anche questa di come la poesia delle Rime indichi una via dell’arte ariostesca attuata piú pienamente nel Furioso accennando con esperienze diverse (quella piú realistica e discorsiva dei Capitoli, quella piú esteriore architettonica delle Canzoni, quella piú sonora dei Madrigali mediate spesso fra loro e a volta a volta piú o meno felicemente realizzate) ad un’intonazione lirica che, partendo dalla cultura petrarchesca (rinvigorita dall’influenza bembesca) e dalla moda cortigiana e reagendo ad esse con accettazione parziale e con intenzione di motivi piú realistici e narrativi, aspirava ad essere canto sollevato, ma non astratto, superiore ad una espressione di avventura, ma non schematicamente spirituale. Corrispondente a quella idealizzazione consistente e terrena che fa della poesia ariostesca la realtà piú profonda del paradiso mondano cinquecentesco.


1 In realtà il Carducci restrinse poi la sua affermazione a piú accettabile conclusione: «L’Ariosto nella sua gioventú scrisse, se non solamente in latino, certo piú spesso e meglio in latino che non in italiano» (La gioventú di Ludovico Ariosto e la poesia latina in Ferrara, in Opere, ed. naz., Bologna, Zanichelli, 1942, vol. XIII, p. 141). Alla tesi estrema del Carducci si opposero l’Hauvette (L’Arioste et la poésie chevaleresque à Ferrare au début du XVIe siècle, Paris, Champion, 1927), il Salza (Studi su L. Ariosto, Città di Castello, Lapi, 1914) e il Fatini (Di alcune recenti pubblicazioni sull’Ariosto, «Giornale storico della letteratura italiana», LXVII, 1916, pp. 421 ss.).

2 E nella stessa Satira parlando sempre degli anni giovanili si conferma (cfr. ed. cit., p. 38):

Cercando or questo et or quel loco opaco,

quivi in piú d’una lingua e in piú d’un stile

rivi traea sin dal gorgoneo laco.

(vv. 127-129)

Dove tra l’altro si deve notare la disposizione prevalentemente stilistica del poeta che rivede le prime prove poetiche come esercizi di stile piú che come sfoghi incontrollati, con quell’accentuazione dell’ars che mai fu da lui assente.

3 Naturalmente si può tenere un conto assai relativo dell’asserzione della Satira VI che presenta il poeta come del tutto ignorante del latino ancora a vent’anni, mentre (anche se si accede alla tesi del Catalano che riferisce il De laudibus philosophiae al 1495 e non a prima del ’94) è a quella età approssimativamente che si riportano le prime liriche latine presupponenti uno studio e una preparazione di lunga mano. La disciplina di Gregorio da Spoleto portò la conoscenza linguistica a capacità formale e ciò spiega l’importanza annessa dall’Ariosto a quell’insegnamento, che l’avrebbe ridotto da massa inutile e pigra a «gentile figura» («ab inutili / pigraque mole gratiorem / in speciem hanc [...] me redegit!», Liriche latine, IX (Ad Albertum Pium), vv. 30-32, ed. cit., p. 26) e l’avrebbe portato alla vera vita piú del padre: «perché mi insegnò a vivere nobilmente, mentre quello solo mi insegnò a vivere tra le genti mortali» («qui dedit optime / mihi esse, cum tantum alter esse / in populo dederit frequenti!», Liriche latine, IX, vv. 34-36). Accentuazione tutta umanistica per cui «gentilezza», «nobiltà d’animo», sono viste soprattutto come capacità di esprimere, cioè di individuare una intima civiltà di sentimento, una vita di affetti composta dallo stile in superiore personalità che l’illetterato non possederebbe.

4 E del resto, anche in questa prima vicenda poetica in cui originale bisogno di poesia e impegno umanistico-scolastico si fondono in un nesso poco facilmente risolubile, gli stessi modelli latini vengono notevolmente spostati dall’Ariosto rispetto alla scuola ferrarese, e in luogo di un predominante ovidianesimo (che pure ebbe la sua grande importanza nella formazione ariostesca e fu presente nella composizione del Furioso) si sente nel giovane lirico l’attenzione alle misure catulliane e, piú in lontananza, properziane.

5 Esercizio che ci indica inoltre nella cultura latina dell’Ariosto solo scarse suggestioni della letteratura greca. Del resto lo stesso Ariosto, pur rimpiangendo la sua ignoranza del greco, considerava nella maturità suo dovere di letterato italiano la priorità assoluta della conoscenza del latino (Satire, VI, vv. 178-180, ed. cit., p. 59).

6 B. Croce, Ariosto, Shakespeare, Corneille, Bari, Laterza, 19615, p. 16.

7 Si noti la cura di distensione sempre piú gustosa con cui il poeta atteggia i suoi brevi ritmi scherzosi e pur ben formati, in doppie stesure.

Hasne rosas, an te vendes, an utrumque, puella,

quae rosa es, atque inquis vendere velle rosas? (XXXIII)

Vendere velle rosas, inquis, cum sis rosa: quaero

tene, rosasne velis, virgo, an utrumque dare. (XXXIV)

8 M. Catalano, Vita di Ludovico Ariosto, Genève, Olschki, 1930, vol. I, pp. 129 ss. Si veda anche del Fatini, La fortuna e l’autenticità delle liriche di Ludovico Ariosto, «Supplemento» 22-23 del «Giornale storico della letteratura italiana», 1924.

9 Ricordato nel Furioso, XLII, 92.

10 Si pensi, ad esempio, ai lamenti di Bradamante nel XXXII, 18 ss. Si veda sul petrarchismo ariostesco il saggio omonimo di E. Bigi in Da Petrarca a Leopardi, Milano-Napoli, Ricciardi, 1954.

11 Secondo il Fatini, Opere minori dell’Ariosto, Firenze, Sansoni, 1915. In contrario l’edizione Polidori le riferiva al 1518.

12 B. Croce, Ariosto, Shakespeare, Corneille cit., p. 16.

13 Naturalmente la divisione in Canzoni, Sonetti, Madrigali, Capitoli, Egloghe corrisponde latamente ad una diversificazione di toni secondo un’adesione tecnico-psicologica a diversi schemi precostituiti: cosicché le Canzoni tendono a toni piú oratori e spirituali, i Sonetti sono piú definitorii e intellettuali, i Madrigali piú cantati e leggeri, i Capitoli piú discorsivi e realistici.

14 Capitolo composto secondo il Fatini (ediz. delle Opere minori dell’Ariosto cit., p. 359) in occasione del viaggio di andata in Garfagnana nel 1522 e «ideato e buttato giú durante una forzata interruzione, ché qui – osserva il Cappelli (Prefaz. a Lettere di Ludovico Ariosto, Milano, Hoepli, 1887, p. LXXXIX) – la passione è propria del primo e piú forte distacco dalla donna amata»; mentre secondo il Catalano (Vita di Ludovico Ariosto cit., I, p. 538) fu composto nel 1509 quando Ludovico fu chiamato a Castelnuovo da Rinaldo Ariosto che lo pregava di un incarico di fiducia per il suo matrimonio. Pare accettabile a noi, anche per la piena maturità di questa poesia, la ipotesi piú antica: a parte la precisazione eccessiva e realistica, l’argomento del Catalano, che si fonda sull’espressione della seconda terzina «a l’altrui preci», è tutt’altro che sicuro, dato che l’Ariosto poteva accennare alle preghiere del duca che avrà certo fatto pressione sul poeta perché andasse in Garfagnana, avendo questi chiesto sí un incarico remunerativo, ma potendo anche rimanere incerto di fronte a un compito grave e lontano da Ferrara. E del resto contro l’ipotesi del Catalano si vedano i vv. 10-13 che sarebbero stati offensivi per Rinaldo, i vv. 46-48 cosí simili ai vv. 133-135 della Satira IV scritta in Garfagnana, i vv. 64-65 che accennano ad una prospettiva di permanenza non di pochi giorni come fu quella del 1509.

15 Ogni ricerca di volontà piú che scherzosa ed elegante è lontana da queste composizioni canore, e si misuri la lontananza perfin di letterale pretesto del Madrigale X da quegli esemplari (Basile, Valvasone) di tardo concettismo piú complesso che poterono esser presenti alla memoria letteraria del Leopardi per il tema di Amore e Morte. Alcuni vecchi critici (Barone, Arullani) lo proposero invece per questa assurda vicinanza:

Fingon costor che parlan de la Morte

un’effigie ad udirla troppo ria;

ed io che so che di summa bellezza,

per mia felice sorte,

a poco a poco nascerà la mia,

colma d’ogni dolcezza,

sí bella me la formo nel disio,

che ’l pregio d’ogni vita è ’l morir mio.